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La Storia e La Diffusione della Madonna della Catena nel Meridione d’Italia

Sulle origini del culto della Madonna della Catena, come per tutti i culti, le tesi sono alquanto diversificate. Si vorrebbe accreditarlo sorto nella metà del X secolo, negli anni delle incursioni e delle dominazioni dei saraceni. Preso con ogni cautela deve essere il riferimento alla presenza già agli inizi del dodicesimo secolo con un monastero dedicato alla Madonna della Katina nel territorio di Cassano, ora Cassano Ionio. Si può tranquillamente concordare col Cardora che, essendo “unica, vaga e peregrina” la notizia tratta dal bios di San Luca di Isola, non si può a quella attribuire valore documentario dal fiorire di una devozione della Madonna della Catena. E se anche quel monastero di asceti italogreci fosse esistito, quale era il significato di Katina nella lingua e nello spirito di quegli uomini di santa vita? L’attuale santuario si presenta con un portico quattrocentesco su tre lati, con l’interno a tre navate ornato da sovrapposti stucchi barocchi e con una cupola poligonale del primo ‘600. L’antica icona, che si ipotizza dei secoli XI – XII e raffigura la Madonna “del tipo Odegitria” che regge sul braccio destro il Bambino benedicente e con la mano sinistra una catena spezzata, è un affresco dipinto sopra un masso di natura tufacea. La festa ricorre la seconda domenica di maggio ,con concorso di pellegrini provenienti anche dalle comunità di origine albanese. La tesi dell’affermazione del culto a causa delle incursioni piratesche E corsare lungo le coste del meridione d’Italia mostra la sua superficialità considerando che la venerazione della Madre di Dio sotto il titolo della Catena è diffusa nelle zone interne e non in quelle rivierasche che per la loro posizione erano le più esposte alle scorrerie dei pedoni che arrivavano dal mare. E poi, in queste ultime località la devozione è rivolta a Santa Maria di Portosalvo. Nella regione calabrese il culto in esame è noto nei centri marittimi di Bruzzano Zeffirio, Castelvetere che nel 1863 prese il nome greco di Caulonia, e Cirò, tutte sulle sponde del Mare Ionio. L’erezione del santuario di Laurignano, che si tramanda iniziata dal 1301, sarebbe stata propiziata dal miracolo della vista riacquistata da un mendico cieco al quale era apparsa una Signora che poi lo stesso riconobbe nelle sembianze di una immagine della Madonna effigiata in un quadro rinvenuto vicino al luogo della visione. Sorto come eremo nella prima metà dell’800 per iniziativa dell’eremita fra Benedetto Falcone e si alcuni suoi compagni fu costruita una chiesetta ad una navata con una cappella laterale per custodire il quadro ritrovato da fra Benedetto il 25 agosto 1833, con annesso cenobio. Quei semplici eremiti pensavano di insegnare ai contadini a leggere ed a scrivere, oltre ad istruirli nella verità della fede cattolica. Morto fra Benedetto il 17 aprile 1866, è seguito un quarantennio di decadenza per il gruppo di eremiti. Le sorti si sono risollevate dopo che nel 1906 si è insediata una comunità di Passionisti che provvidero alla costruzione del convento e di un tempio monumentale. Questo con bolla del pontefice Paolo VI il 21 marzo 1966 fu elevato alla dignità di basilica minore e con decreto di mons. Dino Trabalzini, arcivescovo di Cosenza-Bisignano, il 19 ottobre 1988 fu eretto santuario diocesano. La chiesa di Polistena, che si vorrebbe di origine basiliana, riportata in un rilievo del 1515, è menzionata nella visita pastorale del 1586 e dal Marafioti nel 1601. Questi tramandò che a quell’epoca “tra l’altre allegrezze, si consumavano i giuochi delle lotte, e del corso con la proposta d’honoratissimo premio al vincitore”, e non senza rammarico aggiunse che “queste solennità dono hoggi quasi estinte per tutta la Calabria”. La chiesa fu distrutta dal terremoto del febbraio-marzo 1783, e l’attuale fu edificata per l’impegno del devoto Giuseppe Nicastri sul suolo dove ne sorgeva un’altra anch’essa distrutta dedicata a San Nicola da Tolentino. Sita fuori dall’abitato, per l’espansione urbanistica è attualmente ubicata alla periferia della cittadina in un rione che da esse prende il nome. La festa si celebra la domenica in Albis con concorso di pellegrini provenienti anche dai centri vicini. L’espressivo gruppo statuario di cartapesta sostituisce il precedente ligneo distrutto a causa di un incendio. L’esistenza di una confraternita eretta in Santa Giorgia (fraz. di Scido) nella chiesa propria è nota da una bolla pontificia del 7 luglio 1608 con la concessione delle indulgenze da lucrarsi la domenica successiva al 15 agosto, giorno della festa che era “accompagnata da una celebre fiera”. Nel ‘700 gli iscritti versavano una quota per aver diritto al funerale ed alla celebrazione di alcune messe dopo la morte. Nella chiesa parrocchiale di Santa Maria del Soccorso di Palmi l’altare dedicato alla Catena era già stato eretto il 21 dicembre 1624. Quel giorno Scipione Cassoja dettò il testamento, ed in quel suo altare fondò un beneficio semplice con l’obbligo della celebrazione di tre messe ogni settimana, dotandolo con 40,00 ducati annui che il figlio Giuseppe doveva versare dalle rendite dell’eredità paterna. La bolla di fondazione fu emessa il 12 febbraio 1659 da mons. Gregorio Panzani, vescovo di Mileto. Che il 21 dicembre dello stesso anno nominò dil primo cappellano in persona del chierico Giambattista Lacquaniti di Palmi. Visitato l’11 maggio1711, l’altare era mediocremente ornato, ed il patronato era passato ai Marzano si Seminara. La cappella della Madonna della Catena , detta anche di San Giacomo, fu fondata da Giovanni Parisi con istrumento del 30 settembre 1570 nella chiesa del convento dei Minori Conventuali della città di Monteleone, ora Vibo Valentia. Il fratello ed erede Bartolo, nel testamento del 15 febbraio 1610 la menzionò col solo primo titolo. Nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo di Monteleone era eretto un altare di Santa Maria della Catena col legato di una messa ogni settimana per lascito testamentario di Giampaolo Tavelli del 1663, trasformato in “cappellania collativa” con decreto vescovile del 10 novembre 1710 col quale fu nominato cappellano il chierico Giuseppe Tavelli nipote del fondatore. Sull’altare dello stesso titolo nella chiesa cattedrale di Mileto con istrumento del 13 giugno 1707 il sacerdote Giambattista Lacquaniti, arciprete di Palmi , eresse una “cappellania amovibile” con la celebrazione di una messa settimanale con la clausola che i cappellani erano “ad natum amovibili” del fondatore. La dote di 8,10 ducati era corrisposta da alcuni enfiteuti del casale di Pernocari, ora frazione di Rombiolo. Nel casale di Bracciara, abbandonato dagli abitanti agli inizi del “Decennio francese”, nella chiesa filiale ancora in costruzione nel 1630 si celebrava la messa ogni sabato. L’1 ottobre di quell’anno il visitatore erortò i procuratori ad adoperarsi per portarla a compimento ed a provvederla di arredi necessari per il culto. La notizia dell’esistenza di una chiesa dedicata a Santa Maria nel 1534 porterebbe a supporre che poteva trattarsi di una ricostruzione e non di una prima costruzione, tenuto conto che a quell’epoca non si faceva differenza tra costruzione e ricostruzione. Il culto ferveva ancora nel 1805, anno in cui il 28 luglio il procuratore Antonino Polia s’obbligo di versare 25,00 ducati entro il prossimo 15 agosto al fochista Domenico Bruno di Dasà per i fuochi artificiali “della festa” in onore “della Beatissima Vergine delle Catene” che si celebrava nel casale. Nella chiesa di San Pietro di Monteleone il 7 maggio 1716 fu visitato un altare “bene ornatum”, annesso al maggiore del quale usava i parametri e le suppellettili. Si celebrava la messa “tantum” con le offerte dei devoti. La chiesa di Santa Maria della Catena di Soreto fu visitata nell’ottobre 1586(manca il giorno, ma era prima del 22) ed in essa la celebrazione della messa avveniva “alcuna volta” con le elemosini dei fedeli. Pavimentata e biancheggiata all’interno; era dotata di un calice d’argento, di “uno paro di vestimento ordinario di messa” di un avantaltare di seta rossa “che le fu data per amore di dio”, e di un gonfalone. Sull’altare maggiore, consacrato come anche la chiesa, in una nicchia “a modo di cappella fatto di legname con quattro colonne di legno” era custodita una statua della Madonna dorata. I segni della decadenza si notavano già dal 1630, come si apprende dal verbale della visita pastorale del 28 settembre di quell’anno, dal quale emerge che la chiesa non aveva rendite e quindi non si celebrava. Nell’inventario redatto il 14 maggio 1755 per la consegna degli arredi sacri della chiesa parrocchiale dell’ormai disabitato casale di Soreto, “nell’altare destro” era collocata “una Imagine portatile sotto il titulo della Catena con suo bambino in braccio”, che potrebbe essere l’attuale statua del Rosario custodita nella chiesa parrocchiale di Dinami. Non ci vollero né tempo e né fantasia per la trasformazione, perché fu sufficiente sostituire la catena con la corona del rosario. La menzione della “ cappella” e della fiera già nel 1605 documenta il culto in Dinami, ma la dispersione dei fogli della visita dell’ottobre 1586 ci priva della conoscenza della situazione a quell’epoca. La prima descrizione della chiesa di Dinami, elevata a santuario diocesano con bolla del vescovo Vincenzi De Chiara del 21 dicembre 1956, è contenuta nel verbale della visita pastorale del 30 settembre 1630. Si celebrava la messa ogni sabato, aveva 4,00 ducati di entrate ed era sprovvista del paramento bianco. Per conseguenza la vita dell’annesso convento dei Minori Conventuali fu breve, essendo stato fondato dopo il 1630 e soppresso dalla bolla innocenziana del 1652. Le rendite furono aggregate al seminario di Mileto, che con istrumento stipulato dal notaio Domenicantonio Gurrera il 21 luglio 1769 furono trasferite alla chiesa arcipretale di Dinami con l’obbligo di versare al detto seminario ogni anno 11,00 ducati franchi di qualunque imposizione fiscale. Le gondizioni della chiesa erano miserie nel 1818. Infatti, l’8 giugno di quell’anno fu interdetto a “ipso jure” perché erano mancanti le finestre ed il soffitto, e l’altore era privo degli arredi e i suppellettili per la celebrazione delle sacre funzioni. E … naturalmente fu ordinato di impiegare “almeno in parte” le entrate del giorno della festa. L’attuale statua, non mancante di richiami settecenteschi, si vorrebbe nobilitarla con l’attribuzione al celebre scultore Domenico De Lorenzo (1740-1812) che operava nel vicino casale di Garopoli ora frazione di San Pietro di Caridà. Se l’opera appartiene alla famiglia, può essere stata eseguita dal figlio Fortunato morto cinquantottenne il 3 febbraio 1846. Oppure può essere un lavoro lasciato incompiuto dal padre, mancato all’arte il12 gennaio 1812, che fu completato dal trentaduenne figlio Michele che lo seguì nella romba il 24 dicembre dello stesso anno. Sono pervenuti i contratti pei i fuochi artificiali negli anni 1777 e 1778 per la festa della Catena di Bruzzano Zaffirio. I procuratori verso la fine del mese di marzo di ciascun anno si preoccupavano di stipulare gli impegni con i “fuochisti” onde non rimanere senza lo spettacolo pirotecnico nei giorni della festa. Nella città di Seminara la cappella della Madonna della Catena era eretta nella chiesa del convento dei Minori Conventuali. Sull’altare completamente mancante di suppellettili era collocato un quadro su tavola con le figure della titolare e dei santi Francesco d’Assisi, Nicola da Tolentino e Francesco di Paola nella parte inferiore , dipinto nel 1599 da Paolo Villari di Messina. Nella chiesa di San Giorgio della stessa Seminara l’altare con quadro ad olio su tela fu visitato dal vescovo di Mileto, mons. Marcantonio del Tufo, il 27 ottobre 1586. Nei verbali della visita pastorale del 2 maggio 1711 nessun accenno si riscontra di quest’altare. La cappella della Catena nel convento dominicano di San Giorgio Morgeto era esistente nel 1548, anno in cui fu dotata con 5,00 ducati da Matteo Chareri. Negli anni successivi Paolino Piromalli fondò un beneficio con l’obbligo della celebrazione di due messe in ciascuna settimana dell’anno. Il culto a Taurianova, comune formato nel 1928 dell’unione di Radicena a Iatrinoli, è noto per una statua ottocentesca custodita nella chiesa di San Nicola iuspatronato della famiglia Zerbi del luogo. Si legge nei verbali della visita pastorale del 2 novembre 1586 che il tempietto sorgeva fuori del detto ca(sa)le di Radicena. La chiesa dedicata alla Madonna della Catena di Cittanova chiamata Casalnuovo fino al 1852, fu eretta negli anni tra il 1854 ed il 1860 per un voto dell’arciprete Domenico Luzio. Nella parte bassa sull’abitato di Cropani è edificata una chiesetta che si vorrebbe sorta sul luogo dove un signore, catturato dai briganti, si trovò libero “per evidente intercessione della Madonna”, e l’episodio è raffigurato in un quadro ad olio su tela custodito nella sagrestia. Nell’interno della chiesetta nella nicchia dell’altare maggiore è collocata una statua della Madonna che ad uno schiavetto ai suoi piedi sulla destra porge una catena tenuta dal Bambino sostenuto col braccio sinistro. Su una parete è posto un quadro ottocentesco della Madonna che tiene una catena pendente nella mano destra del Bambino col globo nella mano sinistra, riproducente la Madonna dello stesso titolo venerato nel santuario di Laurignano. La festa nel passato ricorreva il giovedì ed il venerdì precedenti la terza domenica di settembre con fiera popolare, ed ora è spostata al giorno 24 dello stesso mese. Nella diocesi di Gerace l’unica notizia di fonte ecclesiastica è contenuta in una bolla emessa il 13 dicembre 1841 del vescovo Luigi Maria Perrone e dia altre tre, tutte di regio patronato, al sac. Nicola Raschellà di Castelvetere a titolo di sacro patrimonio. Nell’entroterra calabrese, oltre ai già citati, è noto il culto a Benestare, Magli (fraz. di Trenta), Squillace; Civita, Strongoli, Ricadi, Laino Castello, Amantea, Radicena ora Taurianova, Celico, Maranise (fraz. di Fossato Serralta), Motta San Giovanni, San Sperato (rione di Reggio Calabria). Nella vicina isola di Sicilia luoghi di culto esistettero numerosi nelle città e nei medi e piccoli centri. Quattordici chiese parrocchiali sono dedicate alla Madonna della Catena: Aci Catena , Castel di Tusa, Leonforte, Maria Vergine, Modica, Monreale, Naso, Riesi, Roccalumera, San Cataldo, San Filippo del Mela, Scillato, Villafranca Sicula, Villaseta. Santuari o chiese filiali sono eretti a Palermo, Messina, Trapani, Enna, Caltanissetta, Caltagirone, Salemi, Caccamo, Calascibetta, Cefalù, Catania, Castiglione di Sicilia, Mongiuffi, Melia, Bronte, San Piero Patti, Gangi, Giampilieri, Castellammare del Golfo, Quattropani di Lipari. Nel passato il culto era fiorente anche in Castelvetrano, Randazzo, Partanna, Paternò, Alcamo, Gioiosa Marea, Agira, Catello Inici, Mistretta, Santo Stefano di Camastra, Gaggi, Villarosa. I fratelli Stefano e Giacinto De Gesu figli del fu Domenico del fu Nunziato, del casale Cessaniti, il 15 agosto 1706 si presentarono dal notaio per nominare il beneficiato del iuspatronato eretto nella chiesa di Santa Maria della Catena fuori le mura di Messina alla località Paradiso presso il faro. Il beneficio semplice laicale era stato fondato da fu sac. Pelegrino De Pelegrino col testamento dettato il 2 ottobre 1544. Vacante per la morte del sac. Filippo Mangano, i due fratelli nominarono cappellano beneficiato “vita sua durante tantum” il sac. Sebastiano Nero di Messina. Nel capoluogo di Palermo la chiesa della Catena è un capolavoro di architettura del passaggio dallo stile gotico-catalano al rinascimentale, attribuito al genio Matteo Carnelivari. L’origine del titolo di questa chiesa è alquanto dubbio: si vorrebbe derivante da una catena affissa al muro per impedire l’accesso al porto, e si tramanda di una miracolosa liberazione di tre condannati all’impiccagione ne l 1932. La seconda versione però sarebbe in contrasto con un riferimento che si rinviene in un documento del 1330. Nella chiesa matrice di Librizzi si venera una statua di marmo di stile gaginesco, e la festa patronale di celebra la domenica seguente al 15 agosto. La pesante statua durante la processione viene portata a spalla da ventiquattro devoti scalzi. Il nome di Aci Catena, riscontrato la prima vota nel 1709, deriva da una chiesa dedicata alla Madonna della Catena festeggiata il 15 agosto. La devozione era già praticata nel 1576, anno in cui l’altare fu sostituito con una cappella amministrata da una confraternita. La chiesa, iniziata a costruire nel 1586, fu aperta al culto ancora incopleta dua anni dopo ed elevata a parrocchia nel 1597 ed a matrice nel 1686. Per il completamento del sacro edificio nel 1592 in vista della divotione verso la Madonna Della Catena, alla quale ci p multa divotione di tutte genti era stata elargita dai pubblici amministratori la somma di 25 onze. Il culto a Mongiuffi Melia si vuol ricondurre al sopraccitato miracolo di Palermo. La prima chiesetta in contrada “Fanaca” alle falde del Monte Kalfa fu edificata per aver ricevuto “una grazia di rilievo” da Matteo Lo Po’ di Messina residente nel paese dove aveva sposato Onofria Sgroi. La festa si svolge la prima domenica di settembre ed i precedenti giorni di venerdì e sabato, con la partecipazione di pellegrini che arrivano anche a piedi scalzi con torce accese pregando ed invocando grazie. Nel ventennio 1940-1960 è stato costruito il nuovo santuario, nei cui pressi si svolge la fiera il giovedì precedente la prima domenica di settembre. La costruzione della basilica di Castiglione di Sicilia fu iniziata nel 1655, dopo che una frana aveva reso instabile la chiesa di San Giacomo nella quale la devozione alla Madonna della Catena era fiorita subito dopo il noto miracolo avvenuto a Palermo nel 1392. Modificata ed ingrandita, e trasformata a croce greca agli inizi del ‘900, fu elevata a basilica minore nel 1986. La festa ricorreva il 26 luglio, giorno successivo alla festa di San Giacomo, ma dal 1784 di svolge la seconda domenica d’agosto. Nel 1809, dopo che il territorio era stato interessato da una colata lavica fu emesso un pubblico voto per l’osservanza di una giorno di digiuno ogni anno, che fu sostituito da una “festa votiva” la prima domenica dopo Pasqua e che dal 1848 fu spostata alla prima domenica di maggio. La festa della Madonna della Catena, titolare della parrocchia e patrona della comunità di Castel di Tusa, si celebra il giorno dell’Ascensione del Signore. Nella cittadina di Bronte la monumentale chiesa della Madonna della Catena fu fondata nel 1569 per la devozione di Antonino Lombardo, barone della Rivolia, e completata nel 1601. Sull’altare maggiore è collocata una statua marmorea che si vorrebbe di fattura gaginesca, festeggiata il 5 agosto. Nel 1992, ad opera del sac. Giuseppe Salanitri, l’antico oratorio dei Filippini attiguo alla chiesa fu trasformato in sede del Piccolo Seminario. Nella chiesa di Gangi la statua della Madonna della Catena è opera di Filippo Quattrocchi, scultore ligneo nato a Gangi il 13 febbraio 1738. La chiesa di San Pietro Patti nel 1742 fu elevata ad insigne collegiata con 12 canonici. La cappella della Madonna della catena è ornata da un artistico portale. Nella citta di Catania il culto fu introdotto nella prima metà del XIX secolo. I devoti Angelo Costantino e Giuseppe Caruso il 7 ottobre 1828 inoltrarono al vescovo la richiesta di autorizzazione per la costruzione della chiesa, che fu aperta al culto nel 1830. Nel ‘900, fino a quando la chiesa non è stata demolita, ha mantenuto il culto la famiglia Carciotto. La tardosettecentesca statua lignea, di dimensioni inferiori al naturale, è stata restaurata nel 1988 nel corso dell’anno mariano a cura dei Cappuccini che la custodiscono nella loro chiesa parrocchiale dedicata al Sacro Cuore. L’iconografia richiama l’immacolata della comunità francescane, con la Madonna che tiene sul braccio sinistro il bambino che regge con le mani una lancia sormontata dalla croce con la quale schiaccia la testa del serpente posto sotto i piedi della Madre dalla cui mano destra pende una catena con due uncini in basso a forma di ancora. Rimonta al 1997 l’erezione della confraternita sotto il titola della Madonna della Catena nella chiesa di Villarosa. Nell’omonima chiesa di Gioiosa Marea, documentata esistente nel 1666, nel 1724 erano eretti cinque altari ed era custodita una statua di marmo. Leggendaria è l’origine del santuario di Gaeta, nel Lazio meridionale ma di etnia chiaramente napoletana. Si tramanda che ad un poveretto sfuggito ai turchi che lo avevano catturato apparve la Madonna col Bambino in braccio, che gli sciolse le catene ai polsi e gli fece riacquistare la perduta libertà. I lavori per la costruzione della chiesa ottagonale furono completati nel 1635. Il culto a Vasto, in provincia di Chieti, sarebbe sorto nella prima metà dell’800 a seguito di calamità che afflissero la popolazione. Si verificò una frana che minacciava la città nel 1816, una carestia nel 1816-1817 ed il colera nel 1837. La chiesa di Napoli fu terminata nel 1576 dai pescivendoli, ed il culto si vorrebbe conseguenza del già citato miracolo accaduto nel 1392 a Palermo. Nella seconda metà dell’800 si svolgeva ancora lungo la spiaggia la festa popolare. Si deve rilevare che in molti luoghi ormai c’è solo la statua o il quadro della Madonna della Catena, a testimonianza di una devozione fiorita in altre epoche e della quale s’è da tempo perso anche il ricordo. L’esempio ci viene proprio da Dasà, dove fu trasportata la statua quando fu abbandonato il casale di Bracciara. Negli anni’50 del secolo da poco passato un gruppo di quattro persone organizzava la processione la seconda domenica di luglio contemporaneamente alla celebrazione di Dinami, ma ormai pochi ricordiamo quel sia pur annuale impegno di quei devoti. Nella chiesa della confraternita di Santa Caterina v. e m. di Guardavalle è eretto un altare con il quadro raffigurante la Madonna della Catena. Nel museo diocesano di Catanzaro è custodito un quadro della Madonna della Catena col Bambino in braccio e due santi da ciascun lato, proveniente alla chiesa dell’Osservanza della città. Sono raffigurai in primo piano San Leonardo e Sant’Antonio di Padova, e dietro al primo San Francesco di Paola(?) mentre l’altro non è individuabile. Il dipinto è firmato da D(omenico) Ruffo, artista del luogo, e datato 1858. Si vede chiaramente come le motivazione dell’origine siano diverse da luogo a luogo. Può essere emblematico il caso di Napoli, dove la chiesa di dice fondata circa due secoli dopo il miracolo accaduto a Palermo. In Polistena ed in Santa Giorgia di Scido la Madonna della Catena è invocata come protettrice degli emigrante, dei carcerati e delle partorienti. Le tre categorie di protetti nulla hanno in comune, se non la necessità del divino aiuto per essere confortati nelle loro sofferenze. Nell’invocare la Madonna occorre chiedere di essere liberati dai peccati che tengono prigioniere le nostre anime e di essere tenuti legati alla sua catena che non si scioglie, durante il pellegrinaggio terreno verso la Case del Padre in attesa.

Storia del Santuario

La storia del santuario è ben documentale. Nei primi anni del ‘600, nei pressi della chiesetta, fu fondato il convento intitolato a S. Maria della Catena e affidato ai Frati Minori Conventuali. Lo stesso ebbe breve esistenza però, infatti le cronache riportano che venne soppresso da una Bolla di Papa Innocenzo X e le relative rendite, affidate in un primo momento ad un Cappellano, andarono al seminario di Mileto fino al 1769. In quell’anno il parroco Don Giuseppe Cotronea chiese ed ottenne dalla curia Vescovile di Mileto, di unirlo alla chiesa parrocchiale che già allora era intitolata a S. Michele Arcangelo. Il convento, ubicato in contrada Castellammare, era ormai deserto da tempo e andò in rovina fino a quando si decise di adibirlo a cimitero unico per i tre paesi limitrofi, ossia: Dianmi, Melicuccà, Monsoreto.
Alla fine del settecento, la chiesa della Catena ospitava le cappelle di S. Anna, S. Antonio di Padova e S. Nicola e veniva definita la settima tra quelle esistenti a Dinami. In quegli anni subì infatti un periodo di abbandono e venne interdetta ipso jure. La chiesa venne ristrutturate però prima dell‘ ‘800, riacquistando splendore come testimoniano i pellegrinaggi che ripresero copiosi, ma grazie anche alla mano del Sac. Giuseppe Scidà che contribuì in modo sostanziale alla rinascita del Santuario all’inizio del secolo scorso. Nel 956, Mons. Vincenzo De Chiara, Vescovo della diocesi di Mileto, elevò l’allora chiesa a Santuario ma nonostante tutto fu inevitabile un altro periodo di abbandono in cui la chiesa ospitava i riti sacri solamente nelle ricorrenze della seconda Domenica di Luglio.
Bisogna risalire ai tempi più recenti per assistere ad una nuova rinascita del Santuario e il tutto ad opera di Don Agostino Zangari, il quale stravolgendo gli usi e le consuetudini del tempo che prevedevano la presenza della statua della beata vergine all’interno del Santuario sono nei giorni festivi; prese una decisione innovativa che consentì di dare nuova luce al Santuario.
Egli infatti nel 1983 decise di trasferire la Statua della Madonna della Parrocchia di S. Michele Arcangelo al Santuario alla stessa dedicato dove sarebbe rimasta stabilmente fino ai nostri tempi, riuscendo in questo modo a rendere il Santuario della Madonna della Catena un luogo di culto vitale ed accogliente grazie alla presenza dell’effige della beata Vergine.

Riflessioni Teologiche e Liturgiche sulle Vesti di Maria SS. della Catena

Premetto che non sono un esperto in estetica o in storia dell’arte, questo campo è senz’altro più consono ai due relatori che sono vicino a me in questo momento i proff. Famà e Bufalo, per cui quello che mi accingo a illustrarvi in questa mia relazione è frutto soprattutto di mie convinzioni personali, convinzioni che si sono rafforzate nel corso degli anni poiché integrate e suffragate delle conoscenze acquisite durante i miei studi di teologia, arricchite poi da esperienze e approfondimenti personali. Il popolo di Dinami è da sempre affascinato dalla bellezza, della magnificenza e dall’imponenza della statua della Madonna della Catena. L’ha cista sempre come grande e miracolosa, Colei che libera, Colei che è in grado di chiamare a sé migliaia di pellegrini provenienti da zone anche molto distanti da Dinami, Colei che è in quado di suscitare forti emozioni in qualunque persona posa lo sguardo su di Lei, ma soprattutto Colei che p in grado di ravvivare e di far esternare quella fede che a volte in tanti rimane latente. Penso di poter affermare - sicuro di trovarvi d’accordo - che noi dinamesi tutti, almeno una volta nella vita , ci siamo rivolti a Lei per chiedere la sua intercessione in particolari momenti e situazione della nostra vita, per chiederLe qualche grazia. A mio avviso però, c’è dell’altro: un qualcosa che ha aspirato l’artista che un bel giorno guardando un grosso tronco di tiglio ha visto in esso l’immagine che noi adesso contempliamo. Egli si è messo quindi a lavoro per farla venire fuori. Mi riferisco allo scultore De Lorenzo. Grazie al suo genio, alla sua bravura e alla sua competenza possiamo oggi ammirare stupendi capolavori sparsi in diverse zone della Calabria, tra cui questo della Madonna della Catena. Come già detto in precedenza, la lettura teologica e liturgica sui particolari del vestito, che sto per proporvi, è solo mia, ma può anche darsi che i grandi teologi non siano per niente d’accordo su quanto sto per dire; tuttavia per farvi capire come sono arrivato a queste mie convinzione vorrei partire dal brano del Vangelo in cui compare per la prima volta la figura di Maria. "Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth ad una vergine, promessa sposa di un uomo della casi di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine di chiamava Maria. Entrando da lei, disse: Ti Saluto, o piena di grazia, il signore è con te". Così scrive L’Evangelista Luca. E alla fine del suo dialogo con l’angelo Maria dice di sé: "Eccomi, sono la serva del signore, avvenga di me quello che hai detto" . Maria si dichiara serva del signore! Ella è quindi serva del Signore perché si è messa totalmente al suo servizio per fare la sua volontà. Ma servo non è soltanto chi lavora alle dipendenza di qualcuno. La parola "Servo" ha anche un altro significato. Nella liturgia servo è colui che è già stato insignito del primo grado dell’Ordine sacro e viene chiamato non servo all’italiana ma con un termine che deriva dal greco diaconos ministro, diacono. A mio avviso Maria p stata vista dal De Lorenzo come "diacono" o se vogliamo, al femminile "diacona della liturgia" e l’ha rivestita di conseguenza con le vesti diaconali. Procediamo per ordine. Maria indossa una veste di colore rosso. Ebbene in essa noi possiamo vedere il camice liturgico che viene indossato da tutti coloro che hanno ricevuto il Sacro ordine e compiono il servizio all’altare. Notiamo anche una sopraveste; anche questa, a mio avviso, è un abito liturgico. Questa sopraveste non copre completamente il camice indossato da Maria, infatti arriva fin sotto al ginocchio, in basso ai lati risulta aperta. È fornita di maniche che scendono oltre il gomito. Ebbene tutti questi particolari ci fanno capire che questa sopreveste è la Dalmatica, indumento che il diacono indossa nelle celebrazioni più solenni. In più è da sottolineare il raffinato ricamo che la stesa dalmatica riporta: a prima vista potrebbero sembrare dei fiori, ma guardando meglio a me piace vedere abbozzati come dei piccoli melograni visti in sezione, data la visibilità dell’interno, quella macchia rossa. Il melograno è simbolo dell’amore nella bibbia, i cui frutti sono citati nel Cantico dei Cantici. In questo libro si narra l’amore di due giovani, ma in realtà è l’amore di Dio creatore per la sua creatura; Dio che sposa la creatura. Possiamo allora comprendere che la diaconia di Maria è all’insegna di questo amore, i cui frutti fecondi sono portati da Maria sposa dello Spirito Santo. È Cristo bambino, che lei porta sul braccio, il frutto fecondo di questa diaconia, lo stesso che la Chiesa, Sposa di Cristo-Sposo, è invitata a portare sull’esempio della Madre di Dio. Del resto la dalmatica verde con i ricami in oro, può essere vista come abito nuziale. Nelle sacre Scritture il verde serve come attributo della natura; esprime la vita della vegetazione. È il colore dell’erba, delle foglie e degli alberi; simboleggia dunque la crescita e la fertilità. Perciò nel linguaggio profano è divenuto simbolo della speranza. Dionigi L’Areopagita dà forse la più bella caratteristica del verde: "E’ la giovinezza e la vitalità". E a chi più di Maria può essere attribuita la giovinezza e la fertilità? Lei giovane che ha fato al mondo l’autore della vita! Il verde in tutte le sue tinte è largamente utilizzato per personaggi religiosi: per le vesti dei martiri accanto al rosso - di cui parleremo dopo – come sacrificio del fiore della giovinezza. Del resto se la veste fosse rimasta bianca – come tutti la ricordavamo fino a poco tempo fa – in essa avremmo potuto vedere il martirio, come narra l’autore dell’apocalisse: una moltitudine di gente che si prepara ad entrare nel regno. Qui la moltitudine è figura della Chiesa sposata da Cristo con il suo sacrificio che entra appunto nel Regno. Maria, della Chiesa, ci insegna il Concilio, "è la Sposa, è la figura nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo" Il bellissimo manto adornato di stelle dorate è un evidente richiamo alla divinità ed ai cieli: un manto blu (o azzurro) che avvolge l’intera sacra effige. Il colore blu indica anzitutto la trascendenza, in rapporto a tutto ciò che è terrestre e sensibile, il mondo spirituale, l’immortalità. Nell’iconografia troviamo il blu soprattutto nel manto del Cristo Pantocrator (himation), come pure nelle vesti della Vergine Maria (chiton) e degli apostoli. Ma in aggiunta a questo possiamo ricordare un parallelo caro alla iconografia cristiano di derivazione orientale che venera proprio un Maria "la Platytera" (=la più ampia) la più ampia dei cieli, la sola che ha portato in sé Colui che nemmeno i cieli hanno potuto contenere: il Verbo di Dio che nel suo grembo si è fatto uomo. Liturgicamente il manto ci ricorda pure il Piviale, indumento anche questo indossato dai sacri ministri. Il Piviale non è propriamente abito indossato dai sacri ministri, ma viene comunque indossato anche da lui in occasioni particolarmente solenni. Una sciarpa gialla poggia sulla spalla destra della Madonna e scendendo davanti al petto va a finire sul suo fianco sinistro. In questo particolare a mio avviso possiamo vedere la "Stola" necessaria per il servizio liturgico, essa è indossata trasversalmente perché è così che il diacono si distingue dal sacerdote il quale la indossa a mo’ di giogio sul collo e la cui estremità scendono parallelamente sul davanti. La nostra indossa questa "Stola" sulla spalla destra, al contrario del diacono che la indossa sulla spalla sinistra. Personalmente mi spiego questo perché Maria essendo donna non ha ricevuto l’Ordinazione sacra e l’artista, a mio avviso, ha voluto sottolineare questo particolare facendo indossare alla statua la stola sulla spalla opposta. Il colore giallo, del resto, vicino all’oro è un riflesso della luce divina, quadi una presenza dello Spirito che "ha preparato in Maria la dimora peri Verbo". Abbiamo detto all’inizio che la vestecamice è di colore rosso. Fino all’anno 2002 questo particolare era nascosto ai nostri occhi, ma comunque reso a noi noto dalle reminiscenze delle persone più anziane; infatti ricordo già da bambino che anche mia madre mi raccontava che quando lei era adolescente i colori della veste erano diversi eppur non ricordando tutti i dettagli era comunque sicura del colore rosso della veste e del colore blu del mantello puntellato da stelle più piccole. Dopo il recente restauro, che ha riportato la statua allo stato originale tutti noi possiamo finalmente ammirare questo colore così come il De Lorenzo l’ha concepito. Il rosso è un richiamo al sangue, all’Incarnazione: è la carne di Maria che accoglie il Verbo, è il sangue e l’umanità di Maria che viene rivestita dall’abito delle nozze e del manto dei cieli, del tocco dello Spirito Santo. Dietro a tutto c’è la sua umanità accogliente e fecondata dallo Spirito. Ma mi piace qui ricordare anche un altro motivo particolare: il colore rosso non è stato fato casualmente ma è stato sapientemente scelto - e mi piace pensare che il De Lorenzo fosse preparato anche sulla normativa liturgica – perché Maria è martire della fede. E qui ci troviamo di fronte ad un altro termine della lingua greca, che è entrato nell’uso liturgico, marturoj, che significa "testimone". Martire è colui o colei che ha versato il proprio sangue per non rinnegare la propria fede in Cristo Salvatore del mondo. Da quando leggiamo nei Vangeli a Maria non è stato chiesto di versare il proprio sangue per Cristo, ma questo non significa che ella non sia stata testimone del suo Figlio Gesù. Infatti se ripercorriamo tutta la storia della Chiesa non troviamo una persona più fedele di Maria al piano di Dio. Ha detto il suo "Fiat" sempre, nella gioia e nel dolore. Pendiamo a Lei nella gioia quando lo dà alla luce nella grotta di Betlemme, ma pensiamo soprattutto quando lo presenta al Tempio insieme al suo sposo Giuseppe e il vecchio Simeone ha per Lei una profezia di immenso dolore. Quando Gesù durante la sua predicazione sembra non riconoscerla e si domanda chi è sua madre, domandiamoci che cosa ha provato Maria nel sentire queste parole apparentemente dure, parole che avrebbero irritato qualunque madre sulla terra, ma Lei no, Maria si è sempre mantenuta fedele. Pensiamo ancora a Lei quando Gesù, durante la passione, era stato abbandonato dai suoi discepoli ma non da sua madre; di Lei Giovanni scrive: "Stava presso la croce di Gesù sua madre… Quale dolore quindi per questa madre. Per questo la liturgia dice di Lei: "Beata la Vergine Maria perché senza morire meritò sotto la croce la palma del martirio". Gesù sulla croce ha versato il suo sangue, quel sangue che aveva ricevuto da Maria; possiamo quindi affermare senza paura di sbagliare che era anche sangue di Maria quello sparso sulla croce. Quello di martire quindi è un titolo che più di tutti spetta a Maria, e il De Lorenzo ha voluto il colore rosso sulla sua veste proprio per questo. La statua nell’insieme dei vari elementi che ho voluto annotare, si staglia in tutta la sua maestosa bellezza: Maria è la regina incoronata, liberatrice di tutti coloro che a Lei si affidano con fede. Eccomi sola la serva del Signore, dice l’evangelista Luca di Maria! Ecco, dice la Chiesa di Maria, la diacona del Signore! E il Bambino che Ella stringe al suo seno, e che la indica con il braccio sinistro, sembra dire a tutti noi: "Ecco la mia mamma, ecco la vostra mamma, a Lei il modello da seguire per arrivare al Padre; imitando Lei otterrete la salvezza"!

Studio Tecnico della Statua di Maria SS. della Catena

“L’onore fatto all’immagine ridonda sull’originale” Entrando nel piccolo Santuario di Dinami, restiamo incantati davanti alla statua della Madonna della Catena. La ieratica è imponente figura di Maria, avvolta da sontuosi panneggi, la vivacità tutta infantile di Gesù Bambino e la commovente implorazione dello schiavetto sono effigiati da mani sapienti, con un raffinato intaglio e una armonioso concerto di colori (finalmente ritrovati dopo il recente restauro). Siamo difronte ad uno dei massimi esiti della statuaria lignea devozionale conservati in Calabria, con evidenza frutto di una consolidata tradizione, intrisa di esperienza e apporti multiformi. In attesa che uno studio mirato possa individuarne la paternità certa, magari mediante l’emersione di qualche documento risolutivo, per provare a circoscrivere l’opera nell’ambito di un contesto storicoculturale, senza peraltro volerci addentrare nell’annosa questione attributiva, ci limitiamo a notare le straordinarie analogie che il gruppo statuario della Madonna della Catena presenta con la Madonna della Grazia di Pizzoni. Sebbene strati di ridipinture ne nascondono le cromie originali rendendo difficoltosa una puntuale lettura dell’opera, la statua della Grazia sembra costituire un immediato riferimento per l’autore della Madonna della Catena. Le due statue sorprendono la monumentalità delle dimensione, Gesù Bambino presenta Maria con una medesima torsione, simile è l’abbigliamento e lo svolgimento dei panneggi; entrambe le sculture, dal saldo impianto volumetrico, classicheggianti nella ponderazione della posa, manifestano uno stile icastico, dai forti accenti naturalistici. La statua di Pizzoni è assegnata allo scultore e intagliatore napoletano Tommaso Mancini, che risulta operante a Soriano tra il 1754 e il 1755, impegnato nella realizzazione del coro ligneo per la Chiesa del convento di S. Domenico. La presenza dei frati Domenicani e le attività connesse al cantiere impiantato per la fabbrica del convento di S. Domenico – poi ridotto in rovine dal terremoto del 7 febbraio 1783 – costituirono per tutto il circondario un vero crogiuolo di arte e cultura, grazie anche all’avvicendarsi di architetti, artisti e maestranze provenienti da fuori regione, in prevalenza da Napoli, all’epoca capitale del Regno. In questo contesto so sviluppò una fitta rete di attività artigianali e si formò una schiera di scultori, scalpellini, intagliatori e stuccatori locali, che segnarono una eccezionale stagione artistica e culturale, e solo negli ultimi anni diventata oggetto di ricerca approfondita da parte degli studiosi. Nel campo della statuaria lignea, alcuni autori, operanti nei centri situati lungo la catena delle Serre Vibonesi, della metà del Settecento fino a Ottocento inoltrato, raggiunsero risultato di alto livello tecnico e formale, interpretando nel profondo il sentimenti religioso del tempo, incarnando, con le loro opere, la genuina devozione di tutto un popolo di fedeli. Il lavoro di questi artisti si svolgeva in piccoli laboratori, organizzati ancora secondo il modello delle botteghe rinascimentali, dove aiutanti e apprendisti, spesso appartenenti alla stessa famiglia del titolare, si esercitavano nel disegno e nel lavoro di intaglio, collaborando con lo scultore durante tutte le fasi esecutive della statua, assimilando negli anni tecniche, procedimenti e trucchi del mestiere. In questo ambito, dove la trasmissione del sapere assunse una forma prevalentemente dinastica, emergono le famiglie Scrivo, Regio, De Francesco, Pisani e Salerno di Serra S. Bruno, i Corrado di Dasà e i “santari” di Garopoli, dove il capostipite Domenico De Lorenzo, originario di Tropea, si era definitivamente trapiantato nel 1773, sposando Francesca Cavallaro, dopo aver fatto per anni la spola tra la città natale e i boschi delle Serre per scegliere e acquistare il legname di tiglio che utilizzava per le sue statue. Fu negli anni successive al devastante terremoto del 1783 che le botteghe di artisti e artigiani conobbero un grande sviluppo e una incessante attività; si dovettero ricostruire molti edifici sacri ridotti in macerie e rifare arredi e suppellettili liturgici. Il rinnovato sentimento religioso collettivo, tra l’altro, favorì la richiesta di nuove immagini di culto dei santi e della Madonna. La statua della Madonna della Catena è stata realizzata assemblando grosse assi di legno, presumibilmente di tiglio. Il tiglio è uno dei legni universalmente più impiegati per sculture di grandi dimensione; di colore chiaro, simile al pioppo, morbido ma compatto, dalla venatura fitta e poco evidente, è relativamente leggero, qualità essenziale per statue destinate ad essere portate in processione. Inoltre, si presta benissimo ad essere scolpito o intagliato dia di testa che di filo. Il tiglio cresceva rigoglioso lungo le pendici delle Serre e, sia per le sue qualità sia per essere facilmente reperibile, veniva impiegato nella realizzazione delle statue processionali. Eccezionalmente, si utilizzavano anche altre essenze, tipiche della flora locale; ad esempio, Vincenzo Scrivo, nel 1792, con il legno di faggio, realizzo il San Francesco di Paola di Vazzano. Le assi di legno, una volta rifilate, venivano incollate tra loro, usando della colla di origine animale, sciolta in acqua a bagnomaria e usata a caldo, evitando che si raffreddasse, condensandosi sotto forma di gelatina. Si trattava della caratteristica colla da falegname, ricavata dalla bollitura prolungata di ossa e cartilagini, prevalentemente bovine, impiegata diffusamente nella lavorazione del legno prima dell’avvento delle colle viniliche. Generalmente, durante la fase preliminare, prima di concludere gli accordi con la committenza e ricevere l’ordinazione dell’opera, sancita da un contratto scritto meticolosa e dettagliato, l’artista eseguiva un modello di terracotta dipinta, in scala ridotta, della statua da realizzare. Il modello assumeva una duplice funzione: rappresentava un vero e proprio progetto, e come tale veniva presentato ai committenti per essere visionato ed eventualmente approvato, in oltre serviva allo scultore come riscontro durante le fari di esecuzione dell’opera. Si iniziava ricavando le forme essenziali della statua, precedendo con attente misure del modello che, ingrandite proporzionalmente, venivano riportate sul blocco di legno già fissato al banco da scultura. La sbozzatura si eseguiva con le asce e, man mano che si procedeva nel lavoro, all’occorrenza si utilizzavano diversi utensili, tra i quali: sgorbie scalpelli di varie fogge e misura, seghe e trapani a corda. Si arrivava a rifinire le superfici con raspe, raspini e raschietti metallici. Alcune parti della statua, notevolmente aggettanti, come braccia alzate o svolazzi di panneggi, o particolarmente delicate e complesse, come le mani, venivano eseguite a parte, per essere successivamente incollate al resto della figura con l’ausilio di incastri e spinotti di legno. Questo procedimento, a volte, si riscontra anche per l’esecuzione dei volti. Il Bambino Gesù e lo Schiavetto del gruppo statuario della Catena sono stati realizzati separatamente e successivamente composti; infatti, Gesù Bambino risulta incastrato sul panno che Maria regge con la sinistra per mezzo di un perno metallico. Completate le operazioni di rifinitura del legno, prima di passare alle fasi successive, la statua veniva fissata alla base con delle grossi viti metalliche a passo lungo, forgiare appositamente. Nelle orbite lasciate ancora vuote, si incastonavano gli occhi, costituiti da un sottile vetro convesso trasparente, dal contorno ovale, sul verso del quale erano già stati dipinti la pupilla l’iride e il bianco della sclera. Le palpebre venivano poi modellate con della stucco composto da gesso e colla. Prima di dipingere la statua, il legno veniva preparato con una base destinata ad accogliere gli strati fi colore. Si stendeva sul legno nudo una mano di colla molto diluita, detta invito, che fungeva da aggrappante per l’imprimitura, uno strato, più o meno sottile, di bianco formato da gesso e colla. Oltre a fungere da base per la pittura, l’imprimitura serviva a nascondere le giunture, a spianare piccoli difetti del legno, e quando capitava, a nascondere gli errori dello scultore. Si potrebbe dire che le capacità tecniche dell’artista fossero inversamente proporzionali allo spessore dell’imprimitura. I virtuosi della sgorbia, addirittura, su alcune parti della statua, come per le capigliature, omettevano di passare l’imprimitura e stendevano il colore direttamente sul legno preparato con il solo invito. Una volta levigato alla perfezione lo strato di imprimitura, la statua era pronta per essere dipinta. I colori erano costituita da pigmenti macinati e ridotte in polvere finissima, mescolati con un olio essiccativo, che fungeva da medium, generalmente ricavato dai semi della pianta del lino ( in mancanza dell’olio di lino, si usava l’olio ricavato dai gherigli delle noci). Sulla statua venivano stese più mani di colore, lasciando sempre asciugare perfettamente le passate precedenti, prima di procedere con le successive. Una particolare attenzione era prestata per il volto: il rosa delle gote si sfumava delicatamente, si delineavano accuratamente le labbra e si tratteggiavano con finezza le sopracciglia. Infine si levigavano le tracce lasciate dal pannello. Eventuali decorazioni, dorature e simulazione di materiali vari completavano l’opera. Le tonalità usate per le vesti della Madonna della Catena rispecchiavano i tradizionali colori legati a precise connotazioni simboliche. Il rosso fella tunica è il segno inconfondibile della regalità ed è stato ottenuto con una basa di cinabro (solfuro di mercurio) velata da una lacca rossa, probabilmente rosso di carminio. L’uso del preziosissimo carminio naturale, ricavato da una specie esotica di cocciniglia, l’insetto del nome scientifico Cocus cacti, veniva specificato nei contratti. Il colore blu rimando alla natura divina di Maria. Per il manto è usato il blu Prussia (ferrocianuro ferrico), un colore artificiale, inventato nel 1721 dal tedesco Diesbach, citato anch’esso nei contratti con il termine di “Berlino”, un evidente richiamo al luogo di origine del pigmento. La dalmatica, di una delicato verde acquamarina, è finemente decorata da elementi floreale fortemente stilizzati, riconducibili al fiore di garofano. Per la somiglianza dei petali e delle foglie con i chiodi della Passione, il garofano costituisce uno dei tradizionali simboli di Cristo. Stupisce l’effetto di Trompe-l’oeil con il quale sono descritte le damascature della stola, composta da varie tonalità di giallo, così come il finto marmo sulla zoccolatura del piedistallo. Infine, l’opera è stata impreziosita dalle stelle a sei punte sul manto e dalle gallonature dorate. Le stelle sono state eseguite a missione, applicando una sottilissima foglia d’oro su uno strato di vernice, composta da resine di diverso genere e oli essiccativi. Invece, le gallonature sono state eseguite a bolo. Il bolo armeno è una argilla rossa, particolarmente fine, utilizzata come base, sulla quale si applica la foglia d’oro, che, successivamente brunita, assume una particolare lucentezza metallica. Con questa breve escursione sulla materialità della statua, complementare alle considerazioni estetiche, alle indagini storiche ed alle riflessioni teologiche, abbiamo voluto, tra l’altro, evidenziare come, nella pluralità di approcci, che caratterizzano questo volume, lo studio rivolto ad indagare sui procedimenti tecnici e sui materiali contribuisca ad una lettura quanto più completa e puntuale dell’opera d’arte.

Il Santuari di SS. Maria della Catena di Dinami

Cenni Storici

 

"Ciò che più dona gloria a Dinami è il Santuario di Maria SS. Della Catena". Così scriveva, alla fine del secolo scorso, il Taccone-Carducci, nella sua Monografia della Diocesi di Mileto. E così scrivendo riconosceva che il paese di Dinami è inseparabilmente legato alla presenza, nel suo territorio, di questo luogo sacro alla Vergine della Catena e che la sua storia s’intreccia con la storia di questo culto e per esso emerge ed è particolarmente conosciuto. Se la catena fu, in tutti i tempi, il simbolo della schiavitù e del male, il titolo che da essa prende nome, ha nel nostro caso, un semplice valore di antifrasi; la locuzione cioè è usata in senso opposto a quello suo proprio; volendo significare non già che renda o faccia schiavi ma al contrario che libera e riscatta dalla schiavitù. Si vuole dagli storici che il titolo della Catena tragga origine dal triste fenomeno della tratta degli schiavi che, purtroppo, fu "una delle attività più importanti del traffico commerciale, nell’alto medioevo". Che questo titolo risalga proprio a quei tempi, è suggerito e quasi confermato dal particolare, presente nel gruppo statuario di Dinami, del fanciullo che sta in ginocchio ai piedi di Maria, comunemente e tradizionalmente indicato con l’appellativo di “lu schiavareju”” il piccolo schiavo. È così messa in evidenza la particolare efferatezza di que-sta obbrobriosa piaga quando essa colpisce esseri natu-ralmente deboli e indifesi come sono i bambini. Ed era questa "l’epoca in cui – dice uno storico – si rapivano i fanciulli e più spesso se ne acquistavano dai genitori induriti dalla povertà e dall’avarizia". Con tale titolo Maria è proclamata e riconosciuta come la Liberatrice (la Liberadora, direbbero gli spagnoli) dalla duplice schiavitù: materiale, nel senso storicamente più immediato e da quella spirituale e morale, non meno devastante della prima. Quest’ultima accezione è stata messa in rilievo da chi, volendo fregiare di un motto il frontespizio del nostro Santuario, vi ha inciso, a caratteri cubitali, le parole dell’Ave maris stella e cioè il solve vincla reis: sciogli le catene ai rei o, come altri traduce, spezza i legami degli oppressi. La Vergine della Catena è cosi esaltata non solo quale protettrice degli sventurati che cadevano prigionieri (in catena) dei Saraceni, ma come la Liberatrice, in subalterna istanza rispetto al Redentore , dei dannati della terra e degli umiliati ed offesi della vita. Per limitarci ai luoghi a noi più vicini, ricordiamo che anche in Soreto e a Bracciara, piccolo villaggio nei pressi di Dasà, esistevano delle chiesette dedicate alla Madonna della Catena. Per Dinami possediamo la testimonianza del De Sapio che risale al 1605 che, nel suo Apprezzo dello Stato di Soreto scrive: "Dinami ha la cappella di S. Maria della Catena, con Messa una volta la settimana e fiera nel mese di luglio". Stavano così le cose, al tempo del De Sapio, ma, in seguito, con la fondazione del convento, la chiesa era aperta tutti i giorni, essendoci i monaci al suo servizio. Sappiamo infatti che quando il convento fu soppresso e le sue rendite furono assegnate ad un Cappellano, tra gli altri obblighi che questi assunse c’era anche quello della celebrazione quotidiana all’altare della Catena. Per soffermarci un istante sulle parole del De Sapio dobbiamo rilevare che, data l’importanza che specialmente nel passato avevano le fiere e i mercati, come occasione periodica d’incontro tra venditori e compratori, sensali e mediatori, la festa della Catena aveva un posto di non poco rilievo anche nella vita economica e sociale delle nostre terre. Da un breve papale del 20 aprile 1667 apprendiamo che, nella nostra chiesa era eretta una cappella dedicata a S. Anna, cui era unita anche la Confraternita o Congregazio-ne(vulgo: Congrega) dello stesso nome, a favore della quale fu concessa l’indulgenza planaria da lucrarsi nella festa principale e cioè il 26 luglio, festa di S. Anna. La detta cappella, nel 1777 risulta di giuspatronato della famiglia Nugnoz (o Nugnes) "dai cui eredi – dice un documento – di esigevano le rendite" e ne era Cappellano il rev. D. Pasquale Scarano che copriva tale ufficio anche nella Comuneria (o Comunia) di Dinami. In Dinami esisteva un’altra Cappella dedicata a S. Anna , ma era nella Chiesa di S. Maria del Soccorso, di patronato della famiglia Pignataro. È testimoniata ancora l’esistenza di una seconda Cappella dedicata a S. Antonio di Padova per la quale c’era l’obbligo della celebrazione di una Messa la settimana gravante sul Beneficiario delle rendite a quella annesse. Nella Relazione Sciomà è ricordata una terza Cappella sotto il titolo di S. Nicola, fondata dalla Famiglia Caracciolo dei Marchesi di Arena, della quale si erano riservato il diritto di patronato. Di essa risulta Cappellano, nel 1777, il Rev. D. Francesco Antonio Grillari (1741-1790). Nella prima metà del Seicento e precisamente negli anni immediatamente successivi al 1605 – nell’Apprezzo del De Sapio non se ne fa menzione – è stato fondato, in Dinami, un convento sotto il titolo di S. Maria della Catena, affidato ai Frati Minore Conventuali, annesso alla chiesa omonima. Esso è recensito nel catalogo dei conventi soppressi posto in appendice del secondo Sinodo del Parravicino, vescovo di Mileto, del 1692, con la designazione di “Conventus Castri Dinami”. È da ricordare che Dinami era terra con castello donde il nome di castrum, la cui costruzione fu iniziata ne prima anni del Seicento, al tempo in cui era marchese di Soreto Andrea Arduino. È anche ricordato dal Taccone-Gallucci, nella sua Monografia sulla Diocesi di Mileto, nella quale si dice: "La statua della Vergine della Catena… trovasi nella chiesetta rurale sotto lo stesso titolo, presso la quale esisteva un convento detto della Catena fino ai principi del secolo XVII". Voleva dire del secolo XVIII cioè fino agli inizi del ‘700. Ne troviamo notizia anche nel Libro dei Defunti della Par-rocchia di Dinami. In esso per ben tre volte si accenna all’esistenza del Convento della Catena in Dinami. Nell’atto di morte di Pietro Salimbeni del 1730 leggiamo: "mendicans in convetu suppresso Divae Mariae de Catena huius terrae". In quello di Giuseppe Postuma da S. Giovanni di Grotteria dell’anno 1732: "In Cenobio Sanctae Mariae de Catena huius terrae…. Animam Deo redditit… et eius corpus in ecclesia praedicta de Catena…. humatum est". In un terzo atto appartenente a Giovanni Nesci di Fabrizia, morto in Dinami nel 1764, è scritto: "Eremita huius ecclesiae S. Mariae de Catena Conventus suppressi terrae Dinami". Gli atti riportati sono sottoscritti dagli Arcipreti di Dinami: Don Maurizio Fini e Don Apollinare Grillari ai cui tempi la costruzione era ancora in piedi, anche se da molti anni abbandonata dai monaci. È tanta la documentazione sul nostro convento che dubitarne sarebbe irragionevole. Anche in una lettera a me inviata dal Padre Isidoro Liberale Gatti dell’Archivio Generale dei Frati Minori Conventuali di Ro-ma, in risposta ad una mia richiesta, è detto: " Il convento di Dinamo (sic) dal titolo di S. Maria della catena fu certamente appartenente alla Provincia religiosa di Calabria dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e soppresso con la Costituzione di Innocenzio X dopo il 1650", dopo la soppressione, i beni del convento, capaci di una rendita di ducati 95.69 in valore capitale 1.200 ducati, furono assegnati ad un Cappellano con l’obbligo di celebrare la Messa quo-tidiana all’altare della Catena; coadiuvare il Parroco (di Dinami) e versare 40 ducati al nuovo Parroco di Melicucchello. In seguito i detti beni o per meglio dire la rendita di esse fu trasferita al Seminario di Mileto con gli obblighi delle Messe e della manutenzione della Chiesa e dei due Altari: della Catena e si S. Antonio. Questo beneficio semplice fu posseduto dal Seminario fino al 1769, anno in cui, la Curia Vescovile di Mileto, aderendo alla supplica dell’allora Parroco di Dinami Don Giuseppe Cotronea, acconsentì di unirlo alla Chiesa Parrocchiale di Dinami o, per citare le parole del notaio Guerrera il quale per inzeppare le carte tirava le cose per le lunghe, acconsentì che i suoi beni fossero: "ceduti, trasferiti, assegnati, uniti, aggregati ed incorporati" alla detta Chiesa. Il nostro convento era unito alla chiesa della Catena che per tal motivo era detta "la chiesa del convento" (ecclesia conventus) e dopo il 1652 del convento soppresso dalla terra di Dinami. La sua costruzione era ubicata nel pianoro che si allarga a ridosso del Santuario, in contrada Castellammare verso occidente lo vedevi "declivi loco – diremmo mutando una frase del Barrio – occidentem solem spectantem". Una volta diserto rimase disabitato e andò a poco a poco in rovina fino a quando, per essere adibito a cimitero, anche le rovine scomparvero (etiam periere ruinae). Fu l’antico cimitero, unico per tutti e tre gli abitati: di Dinami, Melicuccà e Monsoreto. Di esso non rimase perciò nessuna traccia e venne dai posteri completamente ignorato; se ne sarebbe perduta anche la memoria, se non fossero rimasti, per fortuna, i documenti a ricordarcelo. Alle domande pur legittime del quando e come è sorto in Dinami il culto di questo particolare titolo attribuito a Maria, dobbiamo confessare di non saper dare nessuna risposta, neppure ipotetica. Qualche lume sarebbe potuto venirci dalla relazione che il superiore del nostro Convento dovette inviare a Roma prima che se ne decidesse la soppressione. Ma, allo stato attuale della ricerca, sembra che queste relazioni sui conventi tenuti dai Frati Minori Conventuali della Provincia religiosa della Calabria, siano andate smarrite. Provenne il culto alla Catena dalla vicina Sicilia? È certo che nella città di Palermo la Vergine Maria sotto il titolo della Catena era venerata prima ancora che accadesse l’episodio del 1390. Si tramanda infatti che"Tre disgraziati senza colpa erano stati condannati alla pena di morte e mentre venivano condotti in piazza dove sarebbero stati decapitati, si scatenò un tale uragano che le guardie con gli incatenati dovettero rifugiarsi nella piccolo chiesa di S. Maria del Porto. Quando il temporale finì, le catene dei tre condannati erano miracolosamente spezzate". Come fu osservato, questo fatto non segnò l’origine del culto alla Catena che preesisteva ma solo del tempietto che fu fatto costruire sul luogo dell’avvenimento e che da quel tempo prese il nuovo nome. L’episodio, semmai, contribuì a diffondere vieppiù il culto a questo titolo mariano e, stante il movimento di mercanti e incettatori di olio, vino e seta tra le due sponde dello Stretto, a farlo pervenire anche alle nostre contrade e ad affermarsi, particolarmente, in Dinami. E in Dinami dovette accadere qualche particolare vicenda che oggi non siamo in grado di precisare che segnò l’origine del pellegrinaggio che tuttora si compie al nostro Santuario da fedeli provenienti da vari paesi della Calabria. La presenza di pellegrini alla chiesa della Catena ci è attestata almeno a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, nella citata monografia del Taccone-Garducci, dove è detto: "La solenne feste della Catena… celebrasi nella seconda domenica di luglio con grande concorso di devoti che recansi in pellegrinaggio da molti paesi fin dalla notte precedente". Come appunto accadeva alcuni decenni orsono in cui i pellegrini arrivavano fin dalla sera precedente la festa e si accampavano tra gli oliveti che fanno da corona al Santuario. Da quel che scrive lo storico Taccone-Garducci apprendia-mo pure che la statua della Madonna della Catena che si trova nel Santuario a Lei dedicato, ultimamente a partire dal 1983 in cui si celebrò il Giubileo straordinario della Redenzione, p opera della statuario Domenico De Lorenzo, sui si dà il nome di Fortunato ma che in realtà si chiamava Domenico, nato a Garopoli il 1742 e quivi morto nel 1812. È uno dei due figli più illustri che vanta Garopoli accanto a Domenico Cavalleri, giurista (1724-1781) entrambi distintisi in due diversi campi: l’arte e il giure. Pare che i De Lorenzo provenissero da Tropea e in data imprecisa si stabilirono a Garopoli dove il nostro Domenico si formò una famiglia, sposando una certa Francesca Cavallaro dalla quale ebbe vari figli: Giosuè, ceraiolo; Michele, morto giovane a 31 anni e Giuseppe, sacerdote, che troviamo vivente nel 1849. La statua, come tutte le opere di questo scultore, è effigiata in legno di tiglio che il De Lorenzo ricavava dal Marzano, da una sua proprietà detta “La Longa”. Tutta la famiglia De Lorenzo coltivò la scultura sacra, meritandosi l’appellativo di “I santari” di Garopoli. Le sue opere, continua il Marzano, sono notevoli per la precisa anatomia con cui sono trattate, per l’armonia delle linee e la profonda espressione umana. Armonia delle linee e profonda espressione umana troviamo in quella che, a giusta ragione,, può ritenersi il suo capolavoro: la statua di S. Maria della Catena. in realtà più che di una statua, si tratta di un gruppo statuario, in cui la Vergine, in piedi, nella maestà della sua grazia e col volto soffuso da un indicibile incanto, regge, con la sinistra, il Bambino Gesù, mentre con la destra solleva, con la catena, un piccolo schiavo che sta in ginocchio ai suoi piedi, col volto atteggiato ad implorazione verso la Virgo potens et clemens; la cui potenza è fatta tutta di clemenza. Nella nota dei Luoghi Pii, compilata da Ferdinando Sciomà, governatore di giustizia per Dinami, la chiesa della Catena viene settima tra quelle esistenti in Dinami, alla fine del Settecento, dopo quella di S. Michele Arcangelo che è la Parrocchiale, del Nome di Gesù; di S. Pasquale; di S. Maria del Soccorso; di S. Rocco; di S. Maria della Pietà. Non vi è elencato l’Oratorio del SS. Sacramento perché sorto dopo il 1777. Vi si aggiunge: "Le rendite di questa chiesa erano annesse al Seminario, ma adesso si attrovano unite alla Parrocchia di detta Terra, la quale Parrocchia paga un’annua pensione al Seminario". Questi dati corrispondono esattamente a quanto detto nello strumento del notaio Guerrera, rogato a Mileto, otto anni prima e cioè nel 1769. È scritto che il Parroco di Dinami, allora Don Giuseppe Cotronea, in cambio della cessione dei beni del soppresso convento della Catena, si obbligava, oltre al resto, a pagare undici ducati, all’anno, a favore del Seminario. Aggiungiamo ancora che, al servizio e alla cura del nostro Santuario dedicarono la loro opera alcuni cosiddetti Eremiti (Romiti) i cui nomi vogliamo segnare qui ad affettuosa memoria, traendoli dalle pagine terrose dei Libri Parrocchiali: Frate Antonio Rossi (m. 1728); Gian Domenico Tropiano (m. 1736); Francesco Varì di Ciano (m. 1754); Pasquale De Angelis (m. 1756); Giovanni Nesci di Fabrizia (m. 1764) i cui atti di morte vengono riportati per esteso nella documentazione. A conclusione delle poche notizie che siamo riusciti a tro-vare, ci è caro riportare le parole di Mons. De Lorenzo, sia perché è stato vescovo di Mileto (1889-1898) sia perché scritte per il suo Santuario di Reggio della Madonna della Consolazione: "Che il retaggio avito non abbia a spendersi mai e che sacro sarà per i figli ciò che tanto culto ed amore trovò nel cuore dei padri. Or quinci manterrassi intatta tra il turbinare dei tempi l’antica fede, e n’avrà conforti abbondanti il cuore a ben rispondervi con le opere; ché nell’economia della chiesa è parte intima, vitale e feconda di buoni effetti il filiale amore inverso la Benedetta tra tutte le donne" Lo stile è quello dell’Ottocento ma il contenuto è di valore perenne.